In quelli che vengono creduti “legami perfetti”, dove l’unione è sentita come qualcosa di esclusivo, che quasi nulla a che fare con il mondo, e dove gli altri sono unicamente spettatori di questo “meraviglioso noi”: il provare, e il dare, amore significa concedere completamente il corpo all’altro.
In una interpretazione che arriva fino al donare la propria vita, cedendo tutto quello che si ha e si è.
Tale prospettiva include, di conseguenza, che ogni dono sia “servizio” e “devozione” assoluta, perché in ogni amore creduto perfetto, non c’è futuro a causa della natura ideale, ma soltanto “distensione”.
L’unione fra gli amanti, in questo tipo di relazioni, si declina come “posto selvaggio”, in cui ogni spazio interno diviene contemporaneamente “natio” ed “estraneo”, e dove è continua l’introiezione di “bene e male”.
Come un cannibalismo amoroso, si realizza sempre, con il passare del tempo, una “religione del mondo capovolto”, che solo a volte viene percepita come aberrante.
Aberrazione rappresentata nelle metafore del cuore dilaniato, strappato, reciso, mangiato o assente.
Il cannibalismo è sempre, e comunque, l’unica possibilità, per questi amori senza diritto, che continuamente vedono impedito qualsiasi tentativo di cammino verso un’intimità bi-unitaria.
A mancare è lo scambio, la dialettica, e la fluidità dinamica dei legami tra persone che riconoscono reciprocamente le proprie differenze.
Persi nella loro statica perfezione, irreale quanto ideale, si ritrovano parassitati da ombre invisibili che ne dissolvono ogni linfa vitale.
Francesco Urbani
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