Ti chiedi se è veramente una tua scelta, quella di avvicinarti alla distanza. Se un giorno hai preso, o prendi la decisione, oppure non avevi altra scelta, e una qualsiasi altra possibilità sarebbe stato un banale tradirsi.
Fai scelte, che tali non sono, perché restano solo deviazioni della tua stessa strada, che segui con la leggerezza di un sonnambulo, in quanto non è solo la tua personale, ma l’ennesimo anello di altri anelli, che provengono da lontano.
Generazioni di generazioni passate, conosciute ma mai incontrate. E generazioni che verranno e che non puoi realmente interrompere.
Eppure, nonostante di dubbi tu non possa averne, questo non ti salva dalla sensazione di spaesamento e perdita. Come se un allontanarsi sia l’unico modo per avvicinarsi ed essere.
Lo spaesamento è il ritorno ad un equilibrio che è storia e progetto. Memoria e futuro.
Il bisogno sarebbe quello di ritrovare un centro, ovvero la facile comodità di quel che era, e che rappresentava, anche solo in apparenza, il conosciuto.
Avvicinarsi a quel bisogno resta legittimo, e innegabile, ma non può essere assecondato. Altrimenti si resta chiusi in un vicolo cieco.
Luoghi conosciuti ma sterili.
Ritornare alla radice di quel che è stato prima, può schiudere lo sguardo al proprio avvenire-essere. Metafora di notti da insonne e quindi da oblio.
Il tutto non può che avvenire perdendo il controllo, sapendo girovagare come un viandante senza meta apparente. Fiduciosi della propria storia, di quella sequenza di valori-occasioni, che vanno dal centro di una città al suo opposto più remoto.
Come in quei racconti, che non sai più se son tuoi o di qualcun altro, in cui la notte sentivi gli zoccoli dei cavalli, sui sampietrini, mentre tornavano alla rimessa.
E ora davanti hai solo tanta terra… polvere… persone… il valore ridotto alla presenza di acqua.
Francesco Urbani
urbani@casadinchiostro.it
www.radiokafka.it
www.francescourbani.it
Immagine di Steve Mccurry