Incidere, violentare e ledere la propria carne significa tra le altre cose aggredire la propria specie e la propria individualità. Nell’incisione della pelle c’è sempre una dichiarazione abbastanza aperta di disprezzo o indifferenza nei confronti del “corpo liscio”, ovvero del corpo estetico così tanto diffuso nelle società occidentali. (L’attacco però è anche a quella “pelle liscia” che si attribuisce ad ogni bambino).
La conseguenza è un attacco alla visione del corpo “sacro” (oggetto di desiderio) della nostra società contemporanea.
In questa alterazione del corpo, l’atto autolesivo, pone la persona in dissenso con il pensiero comune (oltre a manifestare un proprio disagio e una propria sofferenza) e lo pone in antitesi a quel pensiero purtroppo così irrigidito per cui il corpo è il simbolo (ormai unico) per pensarsi socialmente, e per essere socialmente pensati.
Ferirsi non è solo una cattiva gestione della propria sofferenza (questo è uno dei motivi ma non l’unico, altrimenti la responsabilità sarebbe unicamente del soggetto), ma è anche un modo per porre la propria esistenza davanti ad un profondo senso di depersonalizzazione.
Mostrare, e mostrarsi, la pelle ferita, il suo sanguinamento è un modo per rendersi visibili laddove si percepisce soltanto un essere ignorati (se non perfettamente conformi alle richieste sociali. Per questo tale fenomeno è più diffuso nell’adolescenza, dato che quella è l’età in cui la “richiesta sociale” si fa particolarmente forte).
Nell’autolesionismo il soggetto dichiara di non disporre di ulteriori mezzi alternativi per affermare la propria esistenza, e il proprio disagio di esistere (quota di disagio che in parte è sempre normale, in tutte le età, e soprattutto in questa era digitale dove il dolore può essere vissuto solo rapidamente e privatamente, essendo di fatto abolita la sua condivisione).
Il soggetto che si auto-lede si mostra, con enorme dolore, capace di asserire il proprio essere nel suo stesso sanguinamento, elemento che preferisce al farsi schiacciare da un intollerabile conformismo e falso adeguamento ad una società da cui vuole affrancarsi e non appartenere in modo passivo.
L’atto autolesivo, in questo senso, non è che il tragico simbolo di problemi che stanno altamente in precedenza, e che proprio tale atto prova a guarire, anche se in modo catastrofico.
È qui che diventa fondamentale soffermarsi sul prima e non solo sul momento in cui il sangue si mostra, nel suo dolore esibito.
Comprendere come il soggetto non abbia trovato modi per esprimere creativamente le proprie potenzialità. Come queste, ad esempio, non abbiano trovato “spazi pubblici”, ma solo “spazi privati”. Ovvero se il soggetto non è stato in grado di trovarne o se il mondo circostante (e relazionale) glielo abbia impedito in qualche forma.
La pelle ferita ci ricorda la circolarità del tempo, in un epoca di eterno presente, in cui invece dovremmo sempre essere chiamati a ritornare nel passato per poter progettare il futuro.
Guardare la sofferenza delle infanzie o delle adolescenze, che non hanno saputo, o potuto trovare, alternative all’omologazione che sempre più il mondo circostante chiede loro.
La pelle ferita è un gesto che riporta in movimento il tempo, e aggredisce l’immobilismo e la passività, anche se in modo violento, tragico e profondamente doloroso.. Il soggetto sente, ance se per un tempo estremamente breve, di rientrare in possesso della propria esistenza, che invece sente in balia di una sofferenza di cui non comprende né il senso né l’origine.
È la lotta contro la disperazione.
Tutto questo, tra le altre tante cose, implica il fatto che il soggetto ci racconta una grande fragilità in riferimento alla propria consapevolezza, e in questo senso la società non può reagire in modo castrante, ma deve saper accogliere un aggressione che la colpisce proprio sotto l’aspetto dell’immagine.
La società deve far in modo di valorizzare le persone, soprattutto i più giovani, e non può stritolarle nella morsa del conformismo da social, il quale pretende solo l’espressione di sentimenti positivi, e non consente la comunione e la condivisione della sofferenza e delle diversità.
La battaglia qui si gioca sull’identità, dove il soggetto is muove sempre tra individuazione appartenenza. Dove il corpo ricopre un ruolo cruciale e ed essenziale, ma non unico o esclusivo.
L’importanza ritorna ad essere quella del “limite” non solo in riferimento al soggetto, ma anche alle relazioni e alla società stessa. Perché il meccanismo non deve mai essere quello del sopruso, o del dominio, o come purtroppo spesso capita dell’odio, ma bensì dell’incontro e della valorizzazione delle differenze, che sono sempre una forma di dialogo, e una possibilità di arricchimento.
Articoli precedenti della serie “La Pelle Ferita”
La Pelle Ferita – La richiesta d’aiuto nell’autolesionismo
Psicologia dell’Autolesionismo (La Pelle Ferita #2)
Il corpo come rifugio – Psicologia dell’Autolesionismo (La Pelle Ferita #3)
L’atto autolesionistico come confine tra Sé e il Mondo. La Pelle Ferita #4
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Immagine tratta dal film "Ragazze Interrotte" di James Mangold, 1999