Buongiorno – mezzanotte,
sto ritornando a casa –
S’è stancato di me il giorno –
io non certo di lui –
Un dolce luogo era il giorno chiaro,
a me piaceva starci –
ma il mattino non mi volle,
così – giorno – buonanotte!
Posso guardare – posso? –
quando sarà l’Est rosso?
In quei momenti hanno le colline
un sembiante che porta altrove il cuore.
Tu mezzanotte non sei così bella,
io scelsi il giorno,
ma ti prego – ricevi una fanciulla
che egli cacciò via!
Emily Dickinson – Poesie – 425
Vorremmo appartenere a un luogo, o più che altro sappiamo che apparteniamo ad esso. Eppure è questo a rifiutarci, o a non accettarci.
Ci troviamo quindi “fuori fuoco”, in un luogo altro. Uno spazio oscuro a noi, che non lo conosciamo bene. E allora l’appartenenza ad esso non è più un dato di fatto, ma qualcosa da costruire. Come quei legami che non sentiamo immediatamente naturali, ma che siamo però (per motivi disparati) obbligati ad abitare.
E non è l’abitudine ad essere dirimente, è proprio la creazione di uno spazio. Che da un lato è impegno, nostro e dell’Altro. Un po’ è qualcosa che non forza la natura. Altrimenti sarebbe impossibile.
D’altronde non possiamo appartenere a qualcosa (o qualcuno) che proprio non ci riguarda.
Il punto è che sentiamo che un luogo ci “spetta”, nel senso che sentiamo che sta “aspettando” noi. Ma questa sensazione può essere sbagliata in noi, che invece scopriamo che il luogo che ci “spetta” è un altro.
E questa aspettativa, questo luogo che indica il nostro nome, che ci fa “nascere” chiamandoci, ci mostra una direzione inaspettata, della nostra esistenza.
Questo luogo ci nomina, e ci costringe ad un cambio di direzione, rispetto a quello che sentivamo così naturale, e che invece ci ha allontanato da sé.
Noi sentiamo, a volte, di far parte di un luogo (di un mondo, di una persona, di un affetto). E lo pensiamo come davvero naturale. Ma poi veniamo rifiutati, oppure ci avviciniamo ma una sensazione di malessere anche molto indeterminato ci avvolge.
Siamo costretti a spostarci. Allontanarci.
Finire in un luogo oscuro, perché sconosciuto. Eppure è lì che realizziamo noi stessi.
Non nel nostro giudicare le vite degli altri.
Non nel dire chi è meglio e chi è peggio.
Non nel elevarci su un pulpito di nulla e sentenziare.
Questi sono i luoghi del nulla, i canti delle sirene che nulla ci raccontano.
Solo quello che “facciamo” realmente, concretamente, veramente. Quell’appartenere quotidiano ad un buio così complesso e ogni giorno sempre più sconosciuto. Ma che ci porta al confine della sera a dire “Ho fatto questo!”, che non è mai “Ho detto questo”.
E’ quella continua scoperta di guardare l’alba e dire “Sono in cammino per fare, non per parlare”.
E il buio mi concede asilo, per esistere. Mai quello che sta nel giorno, per quanto più comodo e confortevole.
Francesco Urbani
Psicologo-Psicoterapeuta-Supervisore
Cerchi nella notte – Il libro
urbani@casadinchiostro.it
www.francescourbani.it
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