Nell’anniversario della nascita del grande scrittore francese, Victor Hugo, presentiamo un brano tratto da uno dei suoi capolavori “L’uomo che ride”.
Questo passaggio è particolarmente significativo, perché rappresenta la posizione filosofica e morale che questo immenso poeta, prende a favore dei poveri e delle classi svantaggiate.
Tutto il suo lavoro per portare verso gli “ultimi” la luce che allontana l’ombra e il buio, e che illumina la miseria dandole nuova vita e speranza. Di riscatto e bellezza.
Questo il monologo di Gwynplaine, un ragazzo affetto da una malformazione facciale, provocata dai “Comprachicos”, che gli rende lo sguardo intrappolato in un eterno sorriso.
Questo figlio della miseria, parla ai potenti e ai regnanti del XVII sec. nell’Inghilterra di un tempo apparentemente perduto, ma con parole che suonano ancora attuali.
“Chi siete, da dove venite?”
“Dal baratro”
E incrociando le braccia, guardò i lord.
“Chi sono? Sono la miseria. Milord devo parlarvi.”
Ci fu un brivido e si fece silenzio. Gwynplaine continuò.
“Milord, voi siete in alto. Sta bene. Non si può fare a meno di credere che Dio abbia le sue ragioni per volerlo. Voi avete il potere, l’opulenza, la gioia, il Sole immobile al vostro zenit, l’autorità illimitata, il godimento esclusivo, l’immenso oblio degli altri. E sia. Ma sotto di voi c’è qualcosa. E anche sopra, forse. Milord, vengo a portarvi una notizia. Il genere umano esiste.”
Le assemblee sono come bambini; gli incidenti sono le loro scatole a sorpresa, che li impauriscono e li attraggono. A volte sembra che scatti una molla e dal buco si vede schizzar fuori un diavolo. […]
Gwynplaine in quel momento si sentiva stranamente grande. Un gruppo di uomini a cui parlare è una specie di treppiede. Si è in piedi su una cima di anime, per così dire. Si ha sotto i talloni un palpito di viscere umane. […]
Da ogni parte intorno a Gwynplaine si levò un grido: “Ascoltate, ascoltate!”
Lui, intanto, teso e sovrumano, riusciva a mantenere sul viso la contrazione severa e lugubre, sotto la quale il suo ghigno s’impennava, come un cavallo selvaggio pronto alla fuga. Riprese:
“Io sono colui che viene dalle profondità. Milord, voi siete i grandi e i ricchi. È pericoloso. Approfittate della notte, ma state in guardia, c’è una grande potenza, l’aurora. L’alba non può essere vinta. Arriverà. Sta già arrivando. E ha in sé un irresistibile fiotto di luce. E chi impedirà a questa fionda di scagliare il Sole nel cielo? Il Sole è il diritto. Voi, invece, siete il privilegio. Abbiate paura. Il vero padrone di casa sta per bussare alla porta. Chi è il padrone del privilegio? Il caso. E chi è il suo figlio? L’abuso. Né il caso né l’abuso sono solidi. Hanno entrambi un pessimo domani. Io vengo ad avvertirvi. Vengo a denunciarvi la vostra stessa felicità. È fatta dell’infelicità altrui. Voi avete tutto, ma il vostro tutto è fatto del nulla degli altri. Milord, io sono l’avvocato senza speranza, difendo una causa persa. Questa causa la vincerà Dio. Io non sono niente, sono solo una voce. Il genere umano è una bocca e io sono il suo grido. Voi mi ascolterete. Vengo ad aprire davanti a voi, pari d’Inghilterra, le grandi assise del popolo, questo sovrano che è vittima, questo condannato che è giudice. Mi piego sotto il peso di ciò che ho da dire. Da dove iniziare? Non so. Ho raccolto nella vasta diffusione delle sofferenze, la mia sconfinata arringa sparsa. Che farne? Mi opprime e io la riverso alla rinfusa qui davanti. Avevo previsto tutto questo? No. Voi siete stupiti, anch’io. Ieri ero un guitto, oggi sono un lord. Giochi profondi. DI chi? Dell’ignoto.
Tutti dobbiamo tremare. Milord tutto l’azzurro è dalla vostra parte. Di quest’immenso universo voi vedete solo la festa: sappiate che c’è anche l’ombra. Per voi io sono lord Fermain Clancharlie, ma il mio vero nome è un nome da povero, Gwynplaine. Io sono un miserabile tagliato nella stoffa dei grandi da un re, il cui capriccio volle così. Ecco la mia storia. Molti di voi hanno conosciuto mio padre, io non l’ho conosciuto. Egli è prossimo a voi per il suo lato feudale, mentre io gli sono vicino per il suo lato proscritto. Ciò che Dio ha fatto è un bene. Sono stato gettato nel baratro. A che scopo? Perché ne vedessi il fondo. Sono un sommozzatore che riporta a galla una perla, la verità. Parlo perché so. E voi mi ascolterete, milord. Io ho provato. Ho visto. La sofferenza, no, non è una parola, signori felici. La povertà? Ci sono cresciuto. L’inverno? Mi ha fatto battere i denti. La fame? L’ho patita. Il disprezzo? L’ho subito. La peste? L’ho avuta. La vergogna? L’ho trangugiata. E la rivomiterò davanti a voi e questo vomito d’ogni miseria vi schizzerà sui piedi e divamperà. Ho esitato prima di lasciarmi condurre in questo posto in cui sono, perché altrove ho altri doveri. E il mio cuore non è qui. Ciò che è accaduto dentro di me non vi riguarda; quando l’uomo che voi chiamate l’usciere della verga nera è venuto a prendermi da parte di colei che chiamate regina, per un momento ho pensato di rifiutare. Ma mi è sembrato che l’oscura mano di Dio mi spingesse in questa direzione e ho obbedito. Ho sentito che era necessario che venissi tra voi. Perché? Per via dei miei stracci di ieri. Era per prendere la parola tra i sazi che Dio mi aveva messo tra gli affamati. Oh! Abbiate pietà! Oh! Questo mondo fatale in cui credete di vivere, voi non lo conoscete; siete così in alto da starne fuori; vi dirò io com’è. Di esperienza ne ho. Arrivo da sotto. Posso dirvi quanto pesate. Voi, i padroni, sapete cosa siete? Ciò che fate, lo vedete? No. Ah! Com’è tutto terribile.
Una notte, una notte di tempesta, piccolo, abbandonato, orfano, solo nell’immenso creato, ho fatto il mio ingresso in quell’oscurità che chiamate società. La prima cosa che ho visto è stata la legge, sotto forma di una forca; la seconda è stata la ricchezza, la vostra ricchezza, sotto forma di una donna morta di freddo e di fame; la terza è stata il futuro, sotto forma di una neonata agonizzante; la quarta è stata il bene, il vero e il giusto, sotto le spoglie di un vagabondo che aveva per unico compagno ed amico un lupo.”
In quel momento Gwynplaine, in preda a una straziante emozione, sentì salirgli in gola i singhiozzi. Il che fece sì, circostanza sinistra, che scoppiasse a ridere. Il contagio fu immediato. Incombeva una nube sull’assemblea; poteva erompere in spavento, invece ruppe in ilarità.
Il riso dei re somiglia al riso degli dèi: contiene sempre una punta di crudeltà. I lord si misero a ironizzare. Il ghigno acuì il riso. Batterono le mani intorno a colui che parlava e lo oltraggiarono.
“Bravo, Gwynplaine!” “Bravo, Uomo che Ride!” “Bravo, il grugno della Green Box!” “Bravo, il ceffo del Tarrinzeau-field!” “Vieni a farci la tua rappresentazione. Bene! Chiacchiera!” “Ecco qualcuno che mi diverte” “Come ride, questo animale!” “Ciao, marionetta!” “Ti saluto lord Clown” “Arringa, dai!” “Ma è un pari d’Inghilterra, quel tipo!” “Continua!” “No! No!” “Sì! Sì!” […]
Una folla che scappa – e le assemblee sono folle – provate a riprenderla. L’eloquenza è un morso: se si rompe l’uditorio si imbizzarrisce e recalcitra finché non ha disarcionato l’oratore. […] Irrigidirsi sulla briglia sembra una risorsa, ma non lo è. Ogni oratore ci prova. È l’istinto. Gwynplaine ci provo. Osservò per un momento quegli uomini che ridevano.
“Allora” – gridò – “voi insultate la miseria. Silenzio, pari d’Inghilterra! Giudici, ascoltate l’arringa. Oh! Vi scongiuro, abbiate pietà! Pietà di chi? Pietà di voi stessi. Chi è in pericolo? Voi. Non vedete che siete su una bilancia e su un piatto c’è il vostro potere e sull’altro la vostra responsabilità? Dio vi pesa. Oh! Non ridete. Meditate. L’oscillazione della bilancia divina è il tremore della coscienza. Voi non siete cattivi. Siete uomini come gli altri, né migliori né peggiori. Vi credete dèi, ma se vi ammalaste domani, vedreste la vostra divinità rabbrividire di febbre. Siamo tutti uguali. Mi rivolgo agli spiriti onesti e ce ne sono; mi rivolgo alle anime generose e ce ne sono anche tra voi.
Voi siete padri, figli e fratelli, dunque spesso provate tenerezza. Chi tra voi stamattina ha guardato svegliarsi suo figlio è buono. I cuori sono tutti uguali. L’umanità non è altro che un cuore. Tra chi opprime e chi è oppresso non c’è differenza a parte il luogo che occupano. I vostri piedi calpestano teste umane, non è colpa vostra. È colpa della Babele sociale. Costruzione difettosa, tutta a sbalzi. Un piano opprime l’altro. Ascoltate ciò che vi dico. Oh! Voi che siete potenti, siate fraterni; voi che siete grandi, siate dolci. Se sapeste tutto quello che ho visto! Ahimè! Che tormento, giù in basso! Il genere umano è in prigione. Quanti dannati innocenti! Manca la luce, manca l’aria, manca la virtù; non c’è speranza; e, cosa temibile, si aspetta.
Rendetevi conto di queste miserie. Ci sono creature che vivono nella morte. Ci sono ragazzine che iniziano a otto anni con la prostituzione e finiscono a venti con la vecchiaia. La severità penale, poi, è spaventosa. Parlo un po’ a caso, non seguo un ordine. Dico quello che mi viene in mente. Non più tardi di ieri, io che sono qui, ho visto un uomo nudo e incatenato, con un mucchio di pietre sul ventre, spirare sotto tortura. Lo sapete voi? No. Se sapeste quello che accade, nessuno di voi oserebbe essere felice.
Chi di voi è stato a Newcastle-on-Tyne? Ci sono uomini nelle miniere che masticano carbone per riempirsi lo stomaco e ingannare la fame. Nella contea di Lancaster, Rubblechester, a forza d’indigenza da città è diventata un villaggio. Non trovo che il principe Giorgio di Danimarca abbia bisogno di centomila ghinee in più. Preferirei far accogliere dall’ospedale l’indigente malato senza fargli pagare in anticipo la sepoltura. Nel Caërnarvon, a Traith-maur come pure a Traith-bichan, la prostrazione dei poveri è orribile. A Strafford, non si può prosciugare la palude per mancanza di denaro. Le fabbriche tessili sono chiuse in tutto il Lancashire. Disoccupazione ovunque.
Lo sapete voi che i pescatori di aringhe di Harlech mangiano l’erba quando la pesca va male? Lo sapete che a Burton-Lazers ci sono ancora lebbrosi braccati, a cui si tirano fucilate se escono dalle loro tane? A Ailesbury, città di cui uno di voi è lord, la carestia è permanente. A Penck-ridge nel Coventry, di cui avete appena beneficiato la cattedrale e arricchito il vescovo, non ci sono letti nelle capanne e si scavano buche nella terra per farci dormire i bambini, che invece d’iniziare dalla culla, iniziano dalla tomba. Io ho visto queste cose. Milord, le imposte che voi votate, sapete chi le paga? I moribondi. Ahimè! Voi sbagliate. Siete sulla cattiva strada. Aumentate la povertà del povero per accrescere la ricchezza del ricco. Bisognerebbe fare il contrario. Come, prendere a chi lavora per dare allo sfaccendato, prendere al pezzente per dare a chi è sazio, prendere all’indigente per dare al principe! […]
State attenti alle leggi che decretate. State attenti al formicaio dolente che calpestate. Abbassate gli occhi. Guardate ai vostri piedi. Oh grandi, ci sono anche i piccoli! Abbiate pietà. Sì! Pietà di voi! Perché le moltitudini agonizzano e chi sta in basso, morendo, fa morire anche chi sta in alto. La morte è un venir meno che non risparmia nessun membro. Quando scende la notte, nessuno conserva il suo raggio di luce. Siete egoisti? Salvate gli altri. La perdita della nave non può lasciare indifferente nessun passeggero. Non c’è naufragio degli uni senza inabissamento degli altri. Oh! Sappiatelo, l’abisso è per tutti.”
Le risate raddoppiarono, irresistibili.
Essere comico fuori e tragico dentro: non c’è sofferenza più umiliante, né collera più profonda. Gwynplaine aveva quella sventura. Le sue parole volevano agire in un senso, il suo viso agiva in un altro: condizione terribile. La sua voce di colpo si ruppe in scoppi striduli.
“È allegra questa turba di uomini! Bene. L’ironia contrapposta all’agonia. Le risate che oltraggiano il rantolo. Sono onnipotenti! Sia pure. Si vedrà. Ah! Io sono uno di loro. Ma sono anche uno dei vostri, o poveri! Un re mi ha venduto, un povero mi ha raccolto. Chi mi ha mutilato? Un principe. Chi mi ha guarito e nutrito? Un morto di fame. Sono lord Clancharlie, ma rimango Gwynplaine. Sono uno dei grandi ma appartengo ai piccoli. Sono tra quelli che se la godono e sono con quelli che soffrono. Ah! Questa società è falsa. Un giorno verrà la società vera. Allora non ci saranno più signori, ci saranno creature libere. Non ci saranno più padroni, ci saranno padri. Questo è l’avvenire. Niente più genuflessioni, niente più bassezza, niente più ignoranza, niente più uomini come bestie da soma, niente più cortigiani, niente più servi, niente più re, solo luce! Nel frattempo, eccomi. Ho un diritto, ne faccio uso. È un diritto? No, se lo uso per me. Sì, se lo uso per tutti. Parlerò ai lord da lord. O fratelli miei che state in basso, dirò loro la vostra miseria. Mi alzerò stringendo nel pugno gli stracci del popolo e scuoterò sui padroni l’indigenza degli schiavi e loro, i favoriti e gli arroganti, non potranno più sbarazzarsi del ricordo degli sventurati, e liberarsi, loro che sono principi, delle brucianti piaghe dei poveri e tanto peggio se sono putrescenti e piene di parassiti e tanto meglio se piovo su dei leoni!”
A questo punto Gwynplaine si girò verso i sottoscrivani inginocchiati che scrivevano appoggiati al quarto sacco di lana.
“Chi è quella gente in ginocchio? Cosa fate lì? Alzatevi, siete uomini.”
Quell’improvvisa apostrofe a subalterni di cui un lord non deve neppure accorgersi, portò l’allegria alle stelle. S’era gridato bravo, si gridò urrà! […]
Pareva di essere alla Green-Box. Solo che alla Green-Box il riso festeggiava Gwynplaine, qui lo distruggeva. Uccidere è lo sforzo del ridicolo. Le risate degli uomini a volte fanno tutto il possibile per assassinare.
Quel riso s’era trasformato in un’aggressione. Piovevano sarcasmi. La stupidità delle assemblee consiste nel fare dello spirito. La risata ingegnosa e imbecille evita i fatti invece di studiarli e respinge i problemi anziché risolverli. Un incidente è un punto di domanda. Riderne significa ridere dell’enigma. La sfinge, che non ride, sta appena dietro. […]
Gwynplaine, come si ricorderà, aveva sognato ben altra accoglienza.
Chi si è inerpicato su una parete a picco di sabbia friabile, a strapiombo su un precipizio vertiginoso, chi ha sentito sotto le mani, sotto le unghie, sotto i gomiti, sotto le ginocchia, sotto i piedi, sfuggire e franare il punto d’appoggio e, indietreggiando invece di avanzare su quella scarpata impraticabile, in preda all’angoscia di scivolare, sprofondando anziché salire, scendendo anziché guadagnare quota, con la certezza del naufragio che aumenta insieme allo sforzo per raggiungere la cima, e perdendosi sempre più a ogni movimento che fa per togliersi dal pericolo, ha sentito la prossimità formidabile dell’abisso e ha provato nelle ossa il cupo gelo della caduta, la gola spalancata sotto di sé, quell’uomo ha provato ciò che provava Gwynplaine.
Sentiva la sua ascensione crollare sotto di lui e il suo uditorio era un precipizio.
C’è sempre qualcuno che pronuncia una parola che riassume tutto. Lord Scardsale tradusse in un grido l’impressione dell’assemblea:
“Che ci fa qui questo mostro?”
Gwynplaine si tirò su, smarrito e indignato, in una sorta di convulsione suprema. Li guardò tutti fissamente.
“Che ci faccio qui? Vengo a essere terribile. Sono un mostro, voi dite. No, sono il popolo. Sono un’eccezione? No, sono come chiunque. L’eccezione siete voi. Voi siete la chimera, io sono la realtà. Io sono l’Uomo. Sono lo spaventoso Uomo che Ride. Ride di cosa? Di voi. Di se stesso. Di tutto. Cos’è il suo riso? Il vostro delitto e il suo supplizio. Questo delitto ve lo getta in faccia; questo supplizio ve lo sputa in viso. Io rido, che vuol dire: io piango.”
Si fermò. Si fece silenzio. Le risate continuavano, ma sommessamente. Poté credere a un certo ritorno d’attenzione. Respirò e proseguì:
“Questo riso che ho sulla faccia, ce l’ha messo un re. Questo riso esprime la desolazione universale. Questo significa odio, silenzio forzato, rabbia, disperazione. Questo riso è il frutto delle torture. Questo riso è un riso coatto. Se Satana ridesse in questo modo, il suo riso condannerebbe Dio. Ma l’eterno non somiglia ai mortali; essendo l’assoluto è giusto; e Dio odia ciò che fanno i re. Ah! Voi mi prendete per un’eccezione! Io sono un simbolo. O stupidi onnipotenti, aprite gli occhi. Io incarno tutto. Io rappresento l’umanità così come l’hanno fatta i suoi padroni. L’uomo è mutilato. Quello che hanno fatto a me, l’hanno fatto al genere umano. Gli hanno deformato il diritto, la giustizia, la verità, la ragione, l’intelligenza, come a me gli occhi, le narici e le orecchie; come a me, gli hanno messo nel cuore una cloaca di collera e di dolore, e sulla faccia una maschera di allegria. Dove si era posato il dito di Dio, s’è appoggiato l’artiglio del re. Mostruosa sovrapposizione. Vescovi, pari e principi, il popolo è qualcuno che soffre intimamente e ride in superficie. Milord, vi dico che il popolo sono io. Oggi, voi lo opprimete, oggi voi mi schernite. Ma l’avvenire è un cupo disgelo. Ciò che era pietra diventa flutto. L’apparente solidità si tramuta in sommersione. Uno scricchiolio ed è finita. Verrà un momento in cui una convulsione spezzerà la vostra oppressione, in cui un ruggito risponderà ai vostri schiamazzi. […] Tremate. Si avvicinano soluzioni incorruttibili, le unghie tagliate ricrescono, le lingue strappate prendono il volo e diventano lingue di fuoco sparse al vento delle tenebre e urlano nell’infinito; gli affamati mostrano i loro denti inattivi, i paradisi costruiti sugli inferni vacillano, si soffre, si soffre, si soffre, e tutto ciò che è in alto tentenna e ciò che è in basso si schiude, l’ombra vuole diventare luce, il dannato mette in discussione l’eletto, è il popolo che viene, vi dico, è l’uomo che sale, è l’inizio della fine, è la rossa aurora della catastrofe, ecco che c’è in questo riso che vi fa ridere! […] Tutto ciò che vedete sono io. Le vostre feste sono il mio riso. I vostri pubblici divertimenti sono il mio riso. Le vostre nascite principesche sono il mio riso. Il tuono che avete sopra la testa è il mio riso.”