“Scriverò finché non comincerò a dar voce al mio io più profondo, e poi farò dei figli, e parlerò con voce ancor più profonda”.
Abbandonata dal marito Ted Hughes, ormai innamorato di un’altra donna. Sylvia Plath vede drammaticamente realizzarsi il suo più grande incubo.
Quel marito idealizzato, che lei sempre aveva pensato come rifugio dove potersi proteggere dai dolori dell’esistenza, si è trasformato in carnefice.
Lui, l’amatissimo Ted, il padre dei suoi figli, è andato via con il cuore pieno di un’altra donna.
E lei? Lei resta rinchiusa in una casa – prigione, soffocata dalle responsabilità e dai figli. Accerchiata dalla sua stessa rabbia e dal desiderio di vendetta verso quell’uomo che si è rivelato essere uno dei tanti.
Verso quell’uomo che l’ha tradita lasciandola in compagnia del suo più grande demone. La solitudine.
Chiusa in un destino che, nelle sue poesie precedenti aveva già predetto, la poetessa americana inizia un’auto disciplina in cui ci si sveglia presto, molto prima che i suoi figli possano iniziare a reclamarla.
E in quelle ore, tra la notte e l’alba, cominciano a fluire dalla sua penna le poesie della maturità, generate dalla lotta violenta per la liberazione dalle figure maschili idealizzate (Siano esse marito, amante, padre).
La sua poesia è denuncia contro la falsa protezione di chi in realtà è un persecutore, e la sua arte trova finalmente alimento dal furore.
La Plath inizia ad esplorare quel territorio che è il rapporto fra la donna e l’infante, che dal suo corpo è stato generato, in un viaggio complesso della relazione con se stessa tra donna e madre.
È questo il terreno di una delle sue poesie più importanti: Ariel.
Celebrazione di un materiale grezzo per il suo trentesimo compleanno.
Poesia scritta il 30 ottobre 1962, per lei stessa, nata il 30 ottobre 1932.
Ariel, nome di quel cavallo che l’accompagnava in passeggiate lontane dai pensieri e dalle responsabilità, diventate ormai sia di uomo sia di donna.
È in quelle parole che la Plath rivendica la libertà del suo corpo, come artista separata dai figli.
Guerriera a cavallo, nel cui galoppo svanisce in lontananza, il pianto del figlio, di cui altri avranno cura.
Ariel come morte delle illusioni, e Ariel come incontro di più doveri: quello di madre, di donna e di Artista.
Stasi nel buio.
Poi l’insostanziale azzurro
riversarsi di altura e lontananze.Leonessa di Dio,
come ci compenetriamo,
perno di talloni e ginocchia!-il solcosi fende e passa, fratello
all’arco bruno
del collo che non posso afferrare,bacche occhi-di-negro
gettano scuri
uncini-nere boccate dolci di sangue,
ombre.
Qualcos’altromi solleva per l’aria-
Cosce, criniera;
scaglie dai miei talloni.Bianca
Godiva, mi spoglio-
morte mani, morte costrizioni.E ora io
schiumo in grano, un luccichio di mari.
Il grido del bambinosi dissolve nel muro.
E io
sono la freccia,la rugiada che vola
suicida, fatta una con lo slancio
dentro l’occhioscarlatto, il crogiolo del mattino.
(30 ottobre 1962)
Stasis in darkness.
Then the substanceless blue
Pour of tor and distances.God’s lioness,
How one we grow,
Pivot of heels and knees!—The furrowSplits and passes, sister to
The brown arc
Of the neck I cannot catch,Nigger-eye
Berries cast dark
Hooks—Black sweet blood mouthfuls,
Shadows.
Something elseHauls me through air—
Thighs, hair;
Flakes from my heels.White
Godiva, I unpeel—
Dead hands, dead stringencies.And now I
Foam to wheat, a glitter of seas.
The child’s cryMelts in the wall.
And I
Am the arrow,The dew that flies
Suicidal, at one with the drive
Into the redEye, the cauldron of morning.
(30 october 1962)
Traduzione della poesia "Ariel" di Anna Ravano in Sylvia Plath "Opere", Millenni Mondadori, 2002
La citazione iniziale è in Sylvia Plath "Diari", Adelphi, 1998