La visita di Claudio Magris, allo studio – casa di Sigmund Freud, si trasforma per il grande germanista, in una riflessione profonda sul ruolo della memoria.
Soprattutto si apre un approfondimento sul ruolo della psicoanalisi e delle psicoterapie contemporanee, che troppo spesso mettono in secondo piano il loro aspetto più umano, finendo per assecondare unicamente logiche di potere e di arrivismo.
Logiche che nulla hanno a che fare con l’aspetto di aiuto e di conoscenza che sono la radice ispiratrice di chi, quotidianamente, cerca di stare emotivamente vicino a chi ne ha bisogno.
Quando c’era lui ci andavano in pochi, adesso ci vanno tutti, dice il tassista che mi porta alla casa e allo studio di Freud. Quelle stanze sono famose, anch’io ci sono stato spesso, ma ogni volta l’impressione è profonda, si avverte in quest’aria il rispetto e la paterna malinconia con le quali quel signore ottocentesco è sceso nell’Acheronte. Nell’atrio ci sono cappello e bastone, come se Freud fosse rientrato da poco; c’è la borsa da medico, un baule da viaggio è una bottiglietta in una fodera di cuoio, la borraccia che portava con sė nelle gite fra i boschi, che amava con la precisa abitudinarietà del padre di famiglia.
Le fotografie e i documenti che affollano il vero e proprio studio, ritratti di Freud e degli altri fondatori della nuova scienza o edizioni dei testi famosi, sono banalmente illustrativi; questo non è più lo studio di Freud, è un museo didattico della psicoanalisi, quasi già ridotta a quella formula stereotipa che è ormai d’obbligo in ogni discorso.
Ma nella piccola sala d’aspetto ci sono alcuni libri della vera biblioteca di Freud: Heine, Schiller, Ibsen, i classici che gli insegnavano la discrezione, il rigore e l’humanitas indispensabili per scendere negli inferi. Quel bastone e quella borraccia dicono tutta la grandezza di Freud, il suo senso della misura e il suo amore dell’ordine, la sua semplicità di uomo risolto è libero da smanie, che – addentrandosi nei gorghi delle ambivalenze umane – impara e insegna ad amare ancor di più, più liberamente, quelle gite familiari in montagna.
Di tutto questo è rimasto poco nei convegni psicoanalitici, nei quali, spesso, confuse sparate a vanvera, ignare di sintassi, degradano la psicoanalisi nella sua involontaria parodia, applicando il complesso edipico ai problemi della nettezza urbana o del serpente monetario. Gli eredi di Freud non sono i fumosi ideologi che adoperano spettacolarmente la psicoanalisi, come una gomma americana, ma i terapeuti che, con pazienza, aiutano qualcuno a vivere un po’ meglio. Quella modesta è rassicurante borsa di cuoio mi fa pensare a tutti coloro ai quali debbo quel po’ di sicurezza che posseggo, quella minima è necessaria capacità di convivere con le mie oscurità.
Alla fine della Himmelstrasse, un bel posto panoramico nel bosco viennese, un monumento elevato nel 1977 sul luogo detto Bellevue, dice, non senza enfasi: “Qui, il 24 luglio 1895, il segreto del sogno si è svelato al Dr. Sigm. Freud”. È buffo pensare a quel Signore Segreto, che, come un impostore in una commedia, alla fine getta la maschera. Si pensa piuttosto a quel paesaggio e a Freud che lo guardava, leggendo nei profili curvilinei della città lontana una mappa dei meandri interiori, mai esplorati del tutto. In quella scritta retorica commuove il “Dr.”, quel “Doktor” echeggiante di accadi a dignità, di studi severi e compiuti non senza orgoglio.
Da "Danubio" di Claudio Magris, ed. Garzanti, 1986