E’ un po’ un pretesto quello di partire dalla poesia “ABC” di Wislawa Szymborska, in cui si parla di persone perse e passate durante la vita.
Soprattutto tra le parole della poetessa polacca si intravedono, quasi in controluce, le piccole eppure essenziali motivazioni, che nei legami si sono introdotti, portandoli alla chiusura e al termine.
C’era un momento in cui si poteva domandare, o si poteva rispondere, e invece è stato lasciato un silenzio di comodo, di paura e di remissività.
Come quando abbiamo timore di essere inopportuni e alla fine i risultato è solo quello di aver perso un’occasione.
È Georg Trakl che ben ci spiega quanto sia facile al bello sostituire il cammino della ruggine.
Nuvole al posto del sole.
È il declino, a volte anche senza dramma ma semplicemente leggero…
“Ormai non saprò più
cosa di me pensasse A.
Se B. fino all’ultimo non mi abbia perdonato.
Perché C. fingesse che fosse tutto a posto.
Che parte avesse D. nel silenzio di E.
Cosa si aspettasse F., sempre che si aspettasse qualcosa.
Cosa avesse da nascondere H.
Cosa volesse aggiungere I.
Se il fatto che io ero lì accanto
avesse un qualsiasi significato
per J. Per K. E il restante alfabeto.”
Ci facciamo domande su chi non c’è più. Su quello che pensava, sul perché non abbiamo parlato di certe cose, di certi argomenti, quando era il momento di farlo.
Cosa non ha funzionato, nonostante i buoni propositi, nel dialogo e nell’incontro?
Nonostante il desiderio del conoscersi e di mantenere il legame.
Quali fragilità, quali debolezze e quali egoismi si sono insinuati, dividendo e manomettendo i ponti?
Quando il silenzio, non quello della vicinanza ma quello della distanza, è sceso inesorabilmente e neanche troppo invisibile, a recidere il legame?
Chiusi nel “Sono fatto così…”, “Reagisco sempre in questo modo davanti a queste situazioni…”.
Comunicazioni di una rigidità, di un coinvolgimento mancato, e di una vicinanza solo a se stessi, che implicano la capacità di relazioni solo parziali.
Come ad obbligare l’altro ad un’unica possibilità: quella dell’accettazione remissiva.
E qui entra, il comodo eppur lacerante, “far finta”. Un “come se” che senza parole, ma dalle tante sensazioni, annuncia il termine del viaggio. Con tanto di tappe di discontinuità. Nel non detto. Nell’ormai taciuto.
Ognuno, senza ancora dirselo, è tornato al proprio singolo Sé. Lasciando un “noi” vuoto e solo, fatto di domande a risposta individuale e non più plurale.
Cosa potevamo aggiungere? Cosa potevamo tentare? Forse tanto, forse poco.
Per tenere un rapporto servono sempre due mani, se si scioglie significa che al massimo ce n’era forse appena una.
Francesco Urbani
Psicologo-Psicoterapeuta-Supervisore
“Cerchi nella notte” Il libro
urbani@casadinchiostro.it
www.francescourbani.it
www.casadinchiostro.it
Sostieni Radio Kafka con una donazione
Iban IT25F0306967684577764149731
Intestato a Blog Radio Kafka
Banca Intesa Sanpaolo Spa
Immagine tratta dal film "Sunlight Jr.", di L. Collyer (2013)
Le motivazioni che spingono ad allontanare o a lasciare andare, risiedono nel vissuto di ognuno.
Col tempo, ho imparato che non si possiede nessuno, che alle volte lasciar andare è una difesa, che tagliare i “rami secchi” alleggerisce e aiuta a crescere meglio.
Lasciar andare è “un’arte da imparare”, come diceva Rilke. A volte, concordo con Claudia, si lascia andare una persona per paura o per difesa. Ma in generale, il “lasciar andare” si dovrebbe basare sul pensiero che ognuno di noi è “libero”. Libero completamente, e in questo il rispetto dell’altro come individuo è fondamentale.