Anche gli ingredienti d ius farmaco se non si tengono in movimento si separano, è questo uno dei frammenti di Eraclito che mi tiene compagnia durante un viaggio. Durante l’ultimo viaggio in cui, come tante altre volte, mi sono chiesto come sarebbe stato non tornare più nella mia città.
Ci sono in questo pensiero due elementi che convivono tra loro, da un lato quello della fuga e della sparizione, dall’altro quello della “vita altra”.
Se parti dal secondo pensiero mi sono chiesto come sarebbe stata la mia vita in un paese più povero di quello in cui abitualmente vivo. Certo, si tratta di un luogo leggermente più povero, ma non certo di un paese in via di sviluppo (luogo in cui ho davvero vissuto e che ha diametralmente cambiato la mia esistenza, innanzitutto nel corpo oltre che nello spirito).
Vivere in un luogo altro, è per me sempre il rapporto con una lingua che non comprendo (anche se stavolta non proprio incomprensibile). E’ un perdersi all’interno di una sonorità sconosciuta, e questo richiama sempre il senso dell’abbandonarsi, del lasciarsi andare. Trasportati, come quando ci si lascia trasportare da una corrente.
E’ l’elemento di una scelta attiva di voluta passività, assieme alla fantasia (del tutto immotivata, e un po’ infantile) legata alle possibilità infinite che questo lasciarsi andare potrebbe mettere in campo.
Incontri, cambi di direzioni, imprevedibilità di un’esistenza che inevitabilmente con gli anni (e con la vita in una economia occidentale) prende una forma difficilmente modificabile.
Ma anche l’idea (anche questa del tutto fantasticata) di un altro paese, di un luogo forse un po’ più culturalmente avanzato, e non intendo qui migliore in senso stretto. Ma migliore nel senso di un luogo che sappia dare valore al senso della cultura, e che non la disprezzi continuamente perché reputata “improduttiva” (pensiero questo che non solo è falso, ma è unicamente dettato da quella macchina del fango che non ha affatto colpito la nostra classe dirigente, ma bensì unicamente il “fare pensiero”).
Un altro aspetto è molto più marginale, in questi miei pensieri di non ritorno (che ci tengo a dirlo sono sempre una dichiarazione d’amore e di gratitudine nei confronti dei luoghi che mi permettono di essere visitati), è quello della fuga. Ovvero di cosa significhi sparire dalla vita che si abita quotidianamente.
Questo non nel senso del sapere lo stupore degli altri. Resto convinto che quando si sparisce si venga sostituiti con grande facilità. Proprio perché nessuno è indispensabile.
Ma cosa accada a quelle persone di cui abitualmente ci prendiamo cura. Persone che dopo un primo (forse breve) smarrimento saprebbero ben organizzarsi, ma che a quel punto entrerebbero in relazione con altre persone. E questo andrebbe a creare nuove circostanze e nuove vie nelle loro vite.
C’è insomma un aspetto, direi più una possibilità, nell’idea del trasferimento improvviso. Nell’idea del perdersi in una nuova lingua.
Che questo processo. Direi questa scelta, sarebbe come un sassolino gettato in uno stagno.
Ovvero un infinito, ma sempre più debole, circuito di cerchi concentrici.
Sempre più leggeri e invisibili.
Quasi sciocchi.
Come l’idea di restare in un paese che si è visitato anche solo per pochi giorni.
Ma ogni fantasia è sciocca, ma ancora più sciocco se non addirittura stupido, sarebbe non farla.
Francesco Urbani
Psicologo-Psicoterapeuta-Supervisore
Cerchi nella notte – Il libro
urbani@casadinchiostro.it
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