Quanto ci prendiamo cura dell’altro autenticamente, e quanto solo per un nostro bisogno?
Prendendoci cura di qualcuno siamo veramente disposti ad ascoltare l’inatteso, uscire dai nostri pregiudizi?
Quanto usiamo l’altro, andando incontro a lui solo per fuggire dalle nostre paure, o quanto invece abbiamo sinceramente voglia di conoscerlo? Ascoltandoci in tal modo ancor più in profondità?
Queste riflessioni prendono spunto sia dall scritto di Nietzsche “Dell’amore del prossimo”, sia dalla rilettura de “Il dramma del bambino dotato” di Alice Miller.
Sono due scritti che obbligano a confrontarci con noi stessi, e che fanno emergere dubbi che non hanno mai risposte assolute, ma possono orientare l’osservazione di se stessi nel momento in cui si è in relazione con l’altro.
Domande che hanno a che fare con la nostra capacitò di ascolto e di cura. Interrogativi che, come elementi critici, devono sempre essere occasione di dialogo, e mai voci da rendere mute.
Non dobbiamo mai dimenticare che noi possiamo “incontrare” l’altro, non necessariamente per una sincera curiosità, ma magari per fuggire a noi stessi. Perdersi in un caotico rumore di relazioni (che ricorda il monito di Kavafis) al fine far tacere quello che vuole raccontarci il nostro silenzio interiore.
Eppure l’ascolto dell’altro non può mai prescindere dall’ascolto di Sé. E questo è ancor più importante per chi si prende cura di qualcuno, dove si è in rapporto con persone che attraversano una condizione di fragilità o che hanno bisogno del nostro sostegno (come, ad esempio, i figli).
Il gioco di specchi, risonanze inestricabili che non sono anonimità di voci, ma reciproche influenze, devono far parte dell’incontro autentico, dove ognuno esprime (e sente che può farlo) se stesso liberamente.
Le emozioni, nostre e dell’altro, non hanno confusione di proprietà, per quanto possano compenetrarsi, influenzarsi ed attivarsi reciprocamente.
L’incontro con l’altro è sempre un movimento nel tempo, dove noi possiamo ritrovare, del tutto inattese, parti della nostra storia che sostavano alla periferia della memoria.
Il passato e il futuro entrano nel campo, ridefinendosi e ridefinendo il presente.
Nel caso in cui, invece, l’incontro non nasca dal desiderio, ma dal bisogno di fuggire da parti di Sé, allora ci si sta chiudendo (come isole) all’interno di un eterno presente circolare. Il legame che doveva essere di conoscenza, e di ascolto, viene limitato ad un falso movimento che non porta alcun cambiamento.
E questo è molto diverso dall’incontro autentico che prevede sempre un cambiamento dei partecipanti.
In questa prospettiva Nietzsche ci ricorda che l’ascolto, l’accogliere, l’amare un nostro amico, prevede sempre che si sia disposti al “mettersi in gioco” con tutto il nostro essere.
Solo in questo modo si può incontrare l’amico in un rapporto autentico, e non basato sui nostri bisogni e sui nostri interessi. Portando, invece noi stessi, e creeando così le basi per un reale incontro.
Accogliere diventa stare nell’incerto, nello sconosciuto. Non è un atto di fuga, ma di crescita.
L’altro non può divenire strumento del nostro bisogno di protezione, ma qualcuno da trovare, anche per scoprire altro di noi stessi.
Un gioco di riflessi che dona gioia e sofferenza, scopre parti buone e asspetti sgradevoli, ma apre ad una ricchezza emotiva in cui esistono gli elementi vitali e creativi della nostra personalità.
Sono, questi, concetti estremamente vicini a quelli scritti da Alice Miller, quando racconta di genitori che valorizzano i figli per quello che sono autenticamente e autonomamente.
Genitori molto diversi da quelli che guardano i propri bambini solo con gli occhi del proprio desiderio di riscatto, che negano il figlio in quanto persona e lo spingono nella direzione delle proprie aspettative. Generando le basi per un amore illusorio, in cui il bambino sente solo di non essere rifiutato, ma mai amato per quel che è veramente.
Relazioni disfunzionali, queste, in cui vi è una continua proiezione di Sé sull’altro, che invece ha necessità di sostegno e fiducia per poter sviluppare una propria autenticità.
Genitori che aprono alla tragedia della compiacenza, che porta alla falsa grandiosità, all’umore depresso e al disprezzo del mondo. Figli “apparentemente” buoni che “elemosinano” affetto mediante la negazione di Sé.
Queste sono le differenze tra ascoltare e fuggire, tra incontrare e usare, tra crescere e restare immobili nel falso movimento. Perché è difficile andare incontro all’altro, se non si porta autenticamente se stessi e la propria “verità” storica.
Francesco Urbani
www.francescourbani.it
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Immagine di copertina: illustrazione di Rebecca Dautremer