La depressione delle brave bambine. Piccola riflessione sui Diari di Sylvia Plath

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“Il mio intento è quello di ritrarre determinati atteggiamenti, sensazioni e pensieri per introdurli nella pseudorealtà del lettore (“pseudo” per forza). Dal momento  che il mio mondo di donna è fortemente percepito attraverso le emozioni e i sensi, nei miei scritti lo elaboro proprio in questo modo e sovrabbondo spesso in pesanti brani descrittivi e in un caleidoscopio di similitudini.

E quando leggo, Dio, quando leggo la prosa misurata, luci, tesa di Louis Untermeyer e le intensità distillate di un poeta dopo l’altro, mi sento oppressa, debole, scialba, impedita e totalmente assurda. C’è in me qualche pallido, flebile bagliore di sensibilità. Dio, possibile, debba perderla cucinando uova strapazzate per un uomo… conoscendo la vita solo per sentito dire, nutrendo il mio corpo e lasciando che le mie capacità percettive e la successiva elaborazione diventano pingui e abuliche per il disuso?

Mi interrogo su tutte le strade non prese e sono tentata di citare Frost… ma non voglio. È triste essere capace solo di declamare altri poeti. Voglio che qualcuno declami me.” (Diari, pagg. 53-54, Adelphi)

Quante volte ci siamo sentiti dire, o ci siamo addirittura detti dentro di noi, che qualsiasi istinto creativo altro non era che una perfetta perdita di tempo?
Una scusa per non assumersi le proprie responsabilità?
Che sia stata la nostra famiglia, la società, la scuola, o chissà chi altri, c’è stato chiesto a più riprese di essere sempre dei bravi bambini. Di non disturbare.

Come se il nostro unico destino non fosse altro che adattarci passivamente al mondo che ci accoglieva.

Ma questo non può essere assolutamente vero.

Il mondo ci ha accolto perché altro non fa che aspettare il nostro contributo. Il nostro segno che si lascia (sulla pelle e non sulla sabbia).

La nostra traccia in attesa che questo universo possa migliorare un poco anche grazie a noi.

Ci chiede, questo mondo, di non essere ulteriormente le persone che lo rovinano (e anche adattarsi passivamente rappresenta un peggioramento).

Anzi ci chiede un contributo. In termini di impegno e di creatività.

Un gesto critico che sappia disturbare. Che sappia spostare gli equilibri che mai possono essere definitivi.

Perché è nel movimento che abita la vita.

Il ruolo non è mai quello di essere bravi bambini, che poi spesso si traduce in adulti depressi.

Il richiamo alla vita passa per essere quei bambini che non chiedono di esistere, ma che esistono e basta.

 

Francesco Urbani
Psicologo-Psicoterapeuta-Supervisore
urbani@casadinchiostro.it
www.francescourbani.it
www.casadinchiostro.it

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