Rileggendo alcune parti del “Requiem” e de “Il Testamento”, il grande poeta tedesco, Rainer Maria Rilke, ci guida lungo l’ombra di temi sempre delicati per l’animo umano.
Quanto siamo capaci di lasciar libero chi amiamo e quanto invece vorremmo possederlo, senza però esserne posseduti? E la propria arte, quanto deve alla libertà e alla solitudine e quanto invece alla presenza di un altro amato?
Domande nel tempo, in cui lo scrittore ci accompagna con la sua opera immensa…
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“Quale uomo ha diritto al possesso di un altro essere?
E chi può possedere ciò che non ha durata,
ciò che solo, felici, qualche volta afferriamo
per rilanciarlo subito, come un bimbo la palla.
E come un ammiraglio non potrebbe
sulla prua della nave trattenere una Nike
quando la leggerezza segreta del suo nume
S’alzi a volo al chiaro alito del mare:
così un uomo non può chiamare indietro
la donna che più non lo vede e su una
esile striscia della sua esistenza
corre per un miracolo senza precipitare:
questo sarebbe colpa e volontà di male.
Perché, se c’è una colpa, è questa: non accrescere
la libertà della persona amata offrendole
tutta la libertà che in noi matura.
Noi quando amiamo abbiamo solo questo da offrire:
lasciarci; perché trattenerci è facile,
e non è arte da imparare.”da “Requiem – Per un’amica”, 1908
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“La solitudine in cui da vent’anni mi sono consolidato, non deve diventare un’eccezione, una ‘vacanza’ che dovrei richiedere, tra molte giustificazioni, a una felicità con funzioni di controllo. Nella mia solitudine devo poter vivere senza limiti. Deve essere la condizione essenziale della mia coscienza, a cui posso sempre ritornare, non con l’intenzione di strapparle rapidamente un determinato vantaggio, non aspettandomi che debba essere fruttuosa; ma inconsapevolmente, senza impormi, con innocenza: come al mio luogo di appartenenza.”… “Non posso rinunciare a me stesso. Perché se sacrificassi tutto quanto è mio e, come talvolta anelo, mi gettassi ciecamente nelle tue braccia perdendomi in esse -, allora avresti uno che ha abdicato: non me, non me.
Non posso simulare né posso cambiare. Proprio come nell’infanzia davanti all’amore soffocante di mio padre, anche ora mi inginocchio nel mondo e supplico quelli che mi amano di risparmiarmi. Sì, che mi risparmino! Che non abusino de me per la loro felicità, ma mi aiutino a dispiegare quella profondissima solitaria felicità, senza le cui Grandi Prove essi infine non mi avrebbero amato.”da “Testamento”, 1921