J. D. Salinger dichiarò alla rivista Esquire, nel 1945, che aspettava di leggere un libro che si allontanasse dai classici romanzi di guerra con un forte contenuto formativo e che rendesse più visibile, senza imbarazzo, l’aspetto imperfetto di questi gloriosi soldati. Questa affermazione ci fa avvicinare alle intenzioni dell’autore quando selezionò nove dei racconti, tra quelli scritti fino al 1953, e li racchiuse nel libro: Nove racconti.
Un percorso interessante si sviluppa tra le storie se teniamo in considerazione che, secondo Margaret Salinger, suo padre disse ad uno studente, che gli chiedeva informazioni, che tutti i fatti biografici e gli eventi traumatici che aveva vissuto si potevano ritrovare nelle sue opere.
Tra le nove storie scelte due sono riconducibili al più grande amore letterario di Salinger: la Famiglia Glass. Si tratta di Un giorno ideale per i pescibanana e Giù al dinghy. In Giù al dinghy l’autore introduce il personaggio di Boo Boo Tannenbaum, già menzionata nel libro Franny e Zooey e terza figlia di Les e Bessie Glass.
Boo Boo, soprannome di Beatrice, viene descritta come una ragazza sconvolgente e definitiva. Lavora per un ammiraglio della marina come segretaria e si trova in vacanza nella casa del lago insieme al figlio Lionel, al marito e due domestiche. La storia gira intorno alla misteriosa fuga da casa del bambino. Ha quattro anni e non è la prima volta che scappa.
La bellezza di questo racconto è più nei particolari che nelle azioni centrali della storia. Salinger si accosta all’accaduto attraverso l’ansia di una domestica che si rivolge all’altra con mezze frasi creando curiosità e apprensione nel lettore; lascia che i precedenti sul bambino siano appresi tramite informazioni seminate nella conversazione, atteggiamenti fisici che evidenziano il disagio e il pregiudizio, fino a spostare la scena su Boo Boo che recupera il figlio giù al dinghy (l’imbarcazione del padre, presente nella storia pur non facendo alcuna comparsa).
Quando madre e figlio sono soli il racconto diviene più intimo. Cercando di capire il motivo della fuga Boo Boo s’improvvisa viceammiraglio per incuriosire Lionel e cercare un modo per avvicinarlo. Le due personalità vengono mostrate come se a descriverle fosse qualcuno che le guarda da fuori e forse è questo uno dei punti forti di Salinger: sono esseri umani veri, estrapolati dalla fantasia, e non c’è garanzia di capire i come e i perché che li riguardano.
Nelle pagine, qui come negli altri racconti, è presente l’incubo della guerra e l’esperienza dell’autore. Boo Boo ha i fiammiferi dello Stork Club, locale molto frequentato da Salinger; getta via la sigaretta nello stesso modo dei soldati; si inventa una storia come viceammiraglio imitando alcuni segnali militari. Lionel assume dei comportamenti che richiamano il disturbo post-traumatico da stress e riferisce il motivo della fuga solo nel momento in cui Salinger introduce l’episodio della maschera — la maschera da sub dello zio Buddy, prima appartenuta a Seymour, che viene lanciata in acqua per capriccio.
Giocando sul senso di colpa l’autore permette a Boo Boo di abbracciare il figlio e consolarlo mentre le rivela il motivo della sua fuga: una domestica ha detto all’altra che suo padre è un grosso pancione di un kike. La parola è volutamente lasciata in lingua originale per non perderne l’effetto. Kike è un termine utilizzato come dispregiativo per gli ebrei ma anche per definire un aquilone. Il bambino conosce solo quest’ultimo significato e la madre decide di proteggere la sua innocenza rispondendogli che non è poi una cosa tanto grave.
Si può notare, facendo scorrere lo sguardo sui Nove racconti, come le sofferenze legate alla guerra, all’olocausto, ai drammi personali di Salinger, vengano offerte in pasto a questa innocenza in più di un’occasione, come se lui stesso continuasse a combattere per cercare la salvezza negli unici esseri viventi che considera puri e vivi: i bambini.
Naturalmente sarà una ricerca vana, nonostante agli inizi possa sembrare che funzioni, e ciò è testimoniato da alcuni elementi nel racconto che portano il lettore a chiudere il libro con la sensazione di aver percepito qualcosa che non torna, una specie di nota stonata. La verità è proprio lì, davanti a noi. Infatti, facendo molta attenzione ai particolari, quella ‘nota’ non si può solo percepire ma anche leggere perché Salinger l’ha scritta e poi inserita nel racconto, proprio nel punto in cui i nostri occhi ci portavano al sicuro.
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Ottimo pezzo. Se ne trovano pochi in rete che parlano di questi racconti in modo completo.