Ormai viviamo un mondo fatto quasi unicamente di immagini, e quindi profondamente legato all’immagine, ma non solo per quello che può rappresentare – di quel che rappresenta realmente ci interessa poco o nulla. Ma ci interessa l’alibi che può fornirci, l’elemento adatto a fuggire dalla profondità, e quindi dall’incontro. Mentre invece lo utilizziamo come opportunità per superficializzare e allontanarci da tutto quel che ci provoca angoscia.
L’uso delle immagini, e non più dell’immaginazione come creatività, viene utilizzata per combattere una fragilità dell’essere che è sempre più radicata, e che sempre più è rafforzata da quei meccanismi che vengono utilizzati per combatterla.
In tal senso si è venuta a creare una circolarità negativa, che vede le persone incapaci di affrontare e modificare una società che li rende precari e che rende tutto attorno a loro precario.
Il lavoro, le relazioni e lo stesso fatto di non poter più parlare della morte, aprendo ad un lutto condiviso, hanno creato un mondo dove le persone sono soggetti di una fragilità del tutto privata, che sembra non potere essere condivisa, altrimenti si rischia l’allontanamento, e la distanza.
Le fragilità possono essere vissute solo in un ambito profondamente privato, o forse in qualche piccola relazione. Ma non devono mai essere portate in pubblico, e su questo punto basti pensare a quanto il termine “morte” non ci sia mai sui social. I quali sono affollati, per loro stessa natura, di sentimenti molto superficiali, o di odio, ma mai di dolore. Se non ovviamente per una condivisione rapida, sempre legata ad un eterno presente e mai ad un vero e proprio incontro con la sofferenza.
Sofferenza intesa nel suo senso più profondo e nella sua ragion d’essere.
L’individuo è costretto ad una elaborazione del tutto personale, e solitaria, delle esperienze, e questo non solo crea una mancata condivisione, ma genera un’individualizzazione degli approcci, per cui alla fine ognuno sentirà che può leggere il mondo unicamente con i propri occhi. Che con il tempo saranno gli unici giusti. Tutto ciò creando ulteriore solitudine e ulteriore senso di incapacità nel comprendere la prospettiva dell’altro.
Solitudine genera non solo altra solitudine, ma ulteriore distanza e ulteriore diffidenza e sospetto, per cui l’altro non sarà più solo quello che non ci ha capito, ma è colui che non capiamo, e soprattutto colui che non ha mia alcuna ragione.
Ognuno è impegnato in modo notevole nell’invenzione singolare, ovvero nel compito di trovare un senso della propria esistenza. Anche se questo non può che essere il compito impossibile, dato che la propria esistenza può avere senso solo nella condivisione, nella legittimazione, e nell’incontro con l’altro.
Senza l’altro non ci può essere individuo, individualità e soggettività. E conseguentemente è ancora più assente la comunità, ma a restare è un senso di abbandono, di rifiuto e di allontanamento che non può che far emergere angoscia e rabbia. In tal senso si viene a generare un odio nei confronti di colui di cui si ha più bisogno: l’Altro.