C’è un luogo dentro di noi da dove parte la conoscenza del mondo, e che instaurando un dialogo con la realtà ci riporta ad una maggiore conoscenza di noi stessi. E’ la nostra interiorità, uno dei poli della nostra esistenza.
L’altro polo abita il mondo, e noi dobbiamo sapere incontrarli entrambi. Accettando lo sconosciuto.
Tutto quello che non sappiamo e che in qualche modo mai sapremo.
Il mondo interiore e il mondo delle persone. Mondi in cui siamo immersi e da cui non possiamo, anche volendolo, distoglierci.
Le conoscenze, di questi infiniti universi, sono alleate in una misteriosa comunione di destino.
Vi è un silenzio in questi poli che dobbiamo innanzitutto imparare ad accettare, perché lo sconosciuto che vi abita porta con sé un mistero che può essere gioia o disperazione, angoscia o speranza.
E’ l’ascolto di questo silenzio che deve farsi arte, più di quella del fare e del continuo movimento. Anche se questo ascolto va accettato nella sua fragilità, come fragile è l’esistenza.
E’ l’inconsistenza delle cose, a cui comunque ci abbracciamo per avere almeno l’illusione di una protezione o di un appoggio.
Appoggio che però possiamo trovare solo in quel punto di contatto che è il dialogo fra il nostro “Io” più intimo e “L’Altro” nella sua profonda intimità e alterata da noi.
A noi resta la speranza di vivere. Che è continuo cammino di crescita e di perdita. Un continuo saper lasciare andare.
Crescita in questo sentirci sempre piccoli nella nostra esistenza nel mondo.
Piccoli perché sentiamo che ad ogni passo che facciamo ve ne è un altro ancora più grande da fare.
Passi che compie solo chi sa abbandonare la semplificazione (che non è semplicità) e chi sa abbandonare le ermeneutiche perfette.
Superando l’infinita piccolezza di chi non si muove mai (auto narrandosi in movimento), e che nulla ha (in termini di relazioni profonde o realizzazioni significative) ma che sentenzia su tutti.
Da noi partiamo e a noi torniamo nella speranza di lasciare una traccia per il mondo. E non una traccia nel mondo.
Siamo noi che dobbiamo farci memoria, e non il mondo memoria di noi.
Ci dobbiamo bagnare nel mare della disperazione, delle ore più buie della nostra e della altrui esistenza, rischiando di farci sommergere. E così bagnati, come pulcini, saper portare la speranza della crescita e dell’essere migliori, che non è solo il professarlo ma una azione interiore ed esterna. Portando la speranza laddove tutto è diventato oscuro.
Portando la luce, anche la più fioca , laddove l’interiorità è stata divorata dal buio.
Camminando (facendosi cammino) nei luoghi del dolore, dell’abbandono e della perdita, con in Sé il fuoco della speranza nella vita. Con in Sé la Felicità della vita.
La vita che abita in noi, quando accogliamo il mistero e non giudichiamo (non producendo quindi buio).
Ed è solo in questo camminamento che possiamo incontrare altri viandanti, sapendo lasciar indietro chi ancora (credendosi migliore) racconta ad alta voce chi è migliore e chi non lo è. Portando (o meglio pensando di portare) come direbbe De André, sulle labbra la voce di Dio.
Francesco Urbani
Psicologo-Psicoterapeuta-Supervisore
Cerchi nella notte – Il libro
urbani@casadinchiostro.it
www.francescourbani.it
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Immagine: Dipinto di Gustav Klimt